15/02/2019

Racconto dell'esperienza di Servizio Civile dell'Ostetrica Sabrina Mazzoleni in Camerun



Ho passato l’anno più bello della mia vita.

Ho sognato tantissimo di avere la possibilità di VIVERE l’Africa, soprattutto dal punto di vista della professione ostetrica.

Ho passato gli ultimi mesi di università a correre attraverso esami, tirocini, tesi e quant’altro con il solo obiettivo di laurearmi il prima possibile per poter partire e soddisfare quella smania che sentivo dentro. Ho corso, ho saltato ostacoli, fino ad arrivare lì, a godere la vista e le emozioni che mi hanno invaso ogni giorno.

La prima volta che sono approdata in Africa, precisamente nello stato del Benin, a distanza di pochissimi mesi dalla laurea, una gioia pura mi ha avvinto: il caldo soffocante di umidità (sono scesa a fine gennaio, per cui tutto fuorché già un poco acclimatata alla partenza), buio pressoché totale, ma alberi tropicali ovunque, palme, banani, fiori splendidi, e sentivo il cuore letteralmente scoppiare.

La stessa sensazione l’ho provata la seconda volta, il 28 novembre 2017 al mio arrivo a Yaoundé, capitale del Camerun, la mia casa per un anno. L’Africa è l’Africa, nulla da dire, ti sconvolge da ogni prospettiva e punto di vista, ma come ti accoglie lei non esiste paragone.

In Benin sono stata iniziata subito alla vita da ospedale da Simonetta, l’Ostetrica che è scesa con me e che è di casa da almeno 10 anni, e lì ho vissuto le 3 settimane più intense della mia vita.

In Camerun il passaggio è stato più graduale e forse più fastidioso: facendo parte di un progetto più ampio di una semplice esperienza di volontariato, quello del Servizio Civile Nazionale, prima di toccare con mano quello che è stato poi il mio lavoro, sono dovuta passare attraverso infinite giornate di formazione, incontri con gente del posto, presentazione alle autorità ecc. 

Finalmente, però, la seconda settimana di dicembre 2017 sono entrata nel vivo della vita al CASS (Centro di Animazione Sociale e Sanitaria) di Nkolndongo, un quartiere di Yaoundé. Ho finalmente cominciato a prendere confidenza con la casa, con la mia compagna di avventura Cristina, con la nostra responsabile della comunità di civilisti, Tina, con la gente che lavora all’interno dell’ospedale. A marzo 2018 poi si è aggiunto Manuel, ragazzo civilista come noi che, durante il periodo in cui prestava servizio nella zona destinata al suo progetto, nell’ovest del Paese, purtroppo si è ritrovato a vivere in una situazione di conflitto tra le popolazioni della cittadina, Fontem, e quindi per esigenze di sicurezza è stato trasferito prima provvisoriamente a Yaoundé, ospite dell’Ambasciata Italiana, e poi definitivamente da noi al CASS, cambiando completamente sia associazione, sia progetto e quindi anche impiego. Nonostante ciò che l’ha portato da noi non sia augurabile a nessuno, io, Cristina e Tina siamo state contentissime che gli eventi ci abbiano fatto incontrare.

Ancora mi meraviglio della facilità con cui ci hanno accolto qui: sarà che ogni anno dal 2003 accolgono civilisti italiani che poi restano un anno, ma la cieca fiducia che ci hanno dimostrato al nostro arrivo è una cosa che difficilmente mi spiego tuttora. Abbiamo subito fatto amicizia con tutti, io, Cristina e Manuel, e anche se a distanza di tempo ho faticato a ricordarmi i nomi e i corrispettivi ambiti di lavoro di ciascuno, loro no, loro ricordavano precisamente chi fossi e che li avevo conosciuti il tal giorno alla tal ora. Sarà che io ero La Blanche (“La Bianca”) e che per questo non mi potevano dimenticare facilmente visto che non ce ne sono tante in giro, ma loro mi riconoscevano ovunque, anche quando per strada, tra il mare di gente della capitale, cercavo di confondermi e loro da lontano mi vedevano e mi correvano incontro per salutarmi. Una simile fiduciosa accettazione è sconcertante anche durante il lavoro: donne in travaglio che, tra una contrazione e l’altra, sussurravano “Ti prego resta con me”, detto con la forza dell’istinto; oppure mamme con figli piccoli che, percependo in loro diffidenza verso di me, invece di dire “Non fidarti di lei” o cose simili, essendo io la diversa, semplicemente dicevano “Sii educato e saluta la Blanche”.

La Blanche. La Bianca. Ti rendi quasi dolorosamente conto di esserlo soprattutto per strada, quando sei costantemente oggetto di attenzioni, più o meno moleste, di chi ti chiede di sposarlo o di chi ti chiede soldi, perché tu incarni l’Occidente e quindi sia l’ideale di bellezza sia la ricchezza, anche se non puoi essere più l’opposto di entrambi. Il retaggio del colonialismo.

In tutto ciò, comunque, prevaleva lo stupore e la meraviglia che sgorgavano dagli occhi ogni qualvolta li posassi su un paesaggio mozzafiato della periferia della città, su un affollato mercato di strada o su un gruppo di bambini che nel tardo pomeriggio giocano a calcio in un campo improvvisato su una stradina sterrata di terra rossa battuta. Adoro la terra rossa africana, che anche se dopo una passeggiata te la ritrovavi addosso ovunque (e quando dico ovunque intendo proprio ovunque), è una terra che dà gioia al solo guardarla, e rende ancora più netto il contrasto splendido con la vegetazione verdissima e il cielo, a tratti azzurro, a tratti grigiastro di nuvole e foschia.

E poi c’è la città. Yaoundé è una metropoli: un gigantesco groviglio di stradine uguali le une alle altre, tra di esse un misto di case moderne e “tradizionali”, e strade principali quasi sempre trafficatissime da centinaia di migliaia di taxi; sì, perché pochissime persone hanno una vettura propria, e la stragrande maggioranza della gente, che siano uomini d’affari, studenti o donne di ritorno dal supermercato, viaggiano in taxi, tutti stipati in quel piccolo spazio a disposizione e sfruttato il più possibile per massimizzare il guadagno. Non si contano le volte che mi è toccato un viaggio più o meno lungo in questo modo, schiacciata tra un avventore e l’altro o tra un avventore e la portiera della macchina, osservando la tranquilla frenesia della città sfrecciare sotto i miei occhi. Cose che capitano e che ti aiutano ad entrare nel mood della vita cittadina. Anche se a volte preferivo la comodità di farmela a piedi. Nel tempo ho preso molto confidenza con la variegata Yaoundé, che giorno per giorno ci ha fatto scoprire un mondo di arte, cultura e tradizione senza paragoni, attraverso mostre, concerti, spettacoli, persino sfilate di moda! E a volte, facendoci guidare dalle persone del posto, siamo pure riusciti a scoprire piccoli angoli di paradiso dove passare una domenica in compagnia di amici, a mangiare pesce freschissimo con i piedi a mollo.

Per quanto riguarda il mio impiego vero e proprio, all’inizio ho cominciato con un paio di mesi di “osservazione”, durante il quale ogni settimana cambiavo reparto o ambulatorio per familiarizzare con l’intera struttura, e a febbraio 2018 ho cominciato tre mesi di lavoro fisso in un reparto specifico, quello della PMI (Protection Materne-Infantile), seguendo le consultazioni prenatali e le ecografie ostetriche insieme al personale locale, terminando ad aprile. Sono stati tre mesi davvero pieni e soddisfacenti in cui ho appreso molto, dalle malattie endemiche come la malaria e la gestione dell’HIV, alla pura semeiotica ostetrica in assenza di strumenti tecnologici; ho inoltre partecipato a campagne di vaccinazione nei quartieri dei bambini fino ai 5 anni, passando “di casa in casa”, e alle cosiddette “Caravane de la Santé”, ovvero una sorta di consultazioni a domicilio, in cui siamo andati nelle scuole per consultare i bambini e offrire loro la referenza dell’ospedale in caso avessimo riscontrato dei problemi. Con maggio sono approdata nella maternità vera e propria, nel reparto di degenza, dove mi sono fermata un mese. Ho passato giugno al computer, trascrivendo in un file Excel l’intero registro cartaceo delle vaccinazioni del 2017, per poter utilizzare le informazioni al fine di organizzare una grande festa per i bambini di un anno che avessero terminato tutte le vaccinazioni previste dal calendario vaccinale ministeriale (e anche per salvarlo dal passare del tempo e dai topi). A luglio finalmente ho raggiunto la sala parto, in cui ho praticamente quasi vissuto per i restanti 4 mesi dell’esperienza. Tra parti gemellari, podalici, consultazioni ginecologiche, pre e postnatali, preparazione e assistenza ai cesarei, sostegno all’utilizzo e all’interpretazione dei tracciati cardiotocografici, sono stati dei mesi super intensi e formativi. Ho appreso e condiviso davvero tanto.

Amo quel posto. Amo l’Africa e non avrei cambiato l’opportunità che mi è stata data con niente al mondo. E spero di rifarlo in futuro.

Spesso mi sono sentita chiedere se ci fossi andata perché in Italia non ho trovato lavoro: lavorare per breve o lungo tempo in Africa non potrà mai essere un sostituto di qualcosa che non hai sotto casa, perché vivere e lavorare lì ti sconvolge, ti cambia, ti ridimensiona, e la scelta che fai non è mai fatta a caso, lo fai perché te lo senti dentro e sei pronto a dare tutto te stesso nel lavoro, nelle relazioni, nella vita che stai dedicando a questa missione. È come scegliere di pescare in porto o su una barca: in un caso resti al sicuro sulla terraferma e ottieni il cibo da mettere in tavola, nell’altro ti metti in gioco, affidandoti sia alle forze del mare e del cielo sia alle tue forze e alla tua determinazione; la differenza sta nel fatto che nel primo caso la sera sei sicuro di rientrare come quando sei uscito la mattina, nel secondo caso sarai in balìa di tanti eventi, verrai spinto al largo, a cercare il pesce migliore, e quando rientrerai a casa non sarai mai la stessa persona che è partita, ma avrai un bottino talmente ricco che tutti gli sforzi che hai fatto avranno un senso, e ogni volta vorrai ripartire di nuovo, per continuare ad assaporare la gioia della libertà, della scoperta della natura, della sfida verso se stessi, del dono agli altri. 

E nient’altro in quel momento varrà di più.